lost souls' alliance
Stampava pamphlet rivoluzionari nello scantinato di un vecchio immobile in centro città. Al piano di sopra c'era una profumeria storica dove bazzicava gente rigidamente conformista e a cui interessava solo che la loro pelle profumasse come quella di editrici newyorkesi settantenni o come quella di un cane appena uscito dalla doccia. A volte entrambe le cose. Ma il negozio forniva un'ottima copertura per quando al piano inferiore il profumo dell'erba saliva. E allora di fronte al continuo annusare e storcere il naso della vecchia cliente in pelliccia di Mongolia, la commessa imbarazzata si affrettava ad esclamare "deve per forza venire da fuori..!" o "mi scusi tanto! abbiamo un problema all'impianto di ventilazione, vuole provare il nostro nuovo Donatella Sciatta?".
Andavo a trovare Marine e i suoi compagni della piccola casa editrice quando tutto diventava davvero troppo e avevo bisogno di staccare. Mi piaceva vederla intenta a leggere e rileggere un particolare passaggio, uno dei suoi ciuffi corvini che penzolava appena sopra la pagina, gli occhiali da intellettualoide e l'espressione resa intensa da quei versetti eretici. Gabo compariva al mio fianco e mi metteva una mano sulla spalla, con quel suo sorrisetto da io-ho-capito-tutto. "Guardala, normalmente è un fiume strabordante ma quando è persa in quei libretti sembra sospesa nel tempo. Manco ti guarda, nemmeno un sospiro". Eh beh.. ma vieni! ti mostro qualcosa" mi diceva, facendomi strada verso la sua postazione piena zeppa di fotografie. Gabo era un paparazzo, prendeva di mira le celebrità più odiose e scattava foto estremamente incriminanti. Operava sotto falsa identità e vendeva alcune delle sue opere a clienti poco raccomandabili che le usavano per incastrare vip deplorevoli. Oppure lui stesso inviava questi pacchi bomba alle sedi di riviste di gossip, a sue spese e senza ricevere nulla in cambio. Era più divertente così, diceva. "Guarda qui chi ho beccato la settimana scorsa, questa la faccio scoppiare oggi. Questi due invece erano intenti a fars..". "Hey, da quanto è che sei qui?". Alzavo gli occhi dal tavolo e Marine era lì, con il suo cardigan nero troppo lungo. La mia risposta a mezza bocca le strappava un mezzo sorriso e subito mi prendeva la mano per portarmi via dalle fotografie di persone intente a pippare o ad agitare il pugno davanti al volto di un immigrato.
El Jefe si trovava in una stanza separata, con grandi vetrate su cui stavano appesi manifesti di concerti alternativi o adesivi vari e osceni: il volto compiaciuto di Roger Rabbit che spunta da dietro la sua nuda moglie Jessica, il logo dei Tool a forma di pene, personaggi animati con gli occhi fuori dalle orbite. Anche lui con la faccia sepolta in alcune riviste, una canna accesa al lato del posacenere. Marine gli chiedeva qualcosa e lui, senza distogliere nemmeno lo sguardo, mugugnava qualcosa in risposta – sì, bi, ba, bah, fantastico, certo, senz'altro, mettilo mettilo. El Jefe era tutto serio durante il coito culturale che aveva con le sue riviste e i suoi libri e i genitali del pensiero anarchico. Poi, raggiunto l'orgasmo dell'erudizione si riprendeva e allora ti parlava come fa un amico che conosci da un'eternità, sempre con la sua voce bassa e potente – tutto un mormorio barbarico mhmmuhm-uuuh-mmh. "Sai, la vera forza del messaggio di mhmm stammh nel fatto che uuhmm-mmmhm..." e via dicendo, mentre io ascoltavo questi echi ancestrali perso nelle immense sale del palazzo di Odino.
Stavamo lì come in trance ad ascoltare discorsi sovversivi sul vero stato delle cose, mentre nell'altra stanza macchine infernali sputavano inchiostro che risaliva dai tombini e dagli scarichi dei bagni e inzozzava i pavimenti lindi delle persone per bene.