storm

A volte l'inchiostro finiva e lei si faceva cupa tutto d'un tratto, mentre i suoi tratti sbiadivano e nulla era più così poetico. O io stesso cadevo nell'oblio e le frasi diventavano sconnesse, le dita stanche che si facevano sfuggire via la nostra storia. In quei momenti litigavamo per ogni stupida cosa – una sedia fuori posto, un grano in più di sale nella zuppa, una tempesta in una tazza da tè. Mi lanciavo verso la porta con i pugni chiusi e lo sguardo basso, dopo aver agguantato la mia Canon. Avevo bisogno di stare da solo e mentre uscivo le dicevo I'll be out, catching lightnings. E fuori infuriava davvero la tempesta, così correvo verso l'auto riparandomi con la solita camicia di flanella, entravo e lasciavo il parcheggio rombando.

Di notte sulla strada incontravo poche auto. I loro fari posteriori davanti a me brillavano di un rosso demoniaco che mi portava negli angoli più scuri del mio pensiero. Un riso sardonico puntato addosso fino a quando il veicolo girava in una stradina secondaria e il demone ritornava nell'abisso. La vivida luce bianca dei lampioni al lato della strada esplodeva ad intervalli regolari – un magnifico rigurgito di fotoni che riduceva le mie pupille ad un paio di nane nere. La pioggia batteva forte sui vetri, sul metallo, tutto un ratatatatatatata costante che cercava di fermare la mia avanzata. Ma una volta arrivato a destinazione i demoni se ne erano andati, i super fotoni risucchiati nel buio, un tetto di alberi a ripararmi dalla pioggia.

Dalla cima di quella collina potevo vedere la pianura giù sotto e i profili delle montagne resi scuri dal velo della notte. Spegnevo la macchina. Il rombo del motore veniva sostituito dal suono adamantino del silenzio, intramezzato dalle urla della tempesta che scaricava la sue energia a terra. Prendevo in mano la reflex e mi mettevo ad acchiappare i fulmini. Uno dopo l'altro impressionavano il sensore. Alcuni spaccavano solitari il cielo a metà, altri si univano insieme in ramificati concerti che sembravano arrivare dritti al centro della Terra. Levavo lo sguardo dall'obiettivo e lasciavo che i miei occhi nudi si riempissero di quelle deflagrazioni straordinarie.

Guidando verso casa la tempesta si affievoliva, l'inchiostro della notte tornava a scorrere tranquillo. Aprivo la porta e Marine era sul divano, una candela all'eucalipto accesa sul tavolo di ardesia dietro di lei – la testa reclinata da un lato, le ciocche ramate a coprirle mezzo volto e il suo paio di cuffie preferite sulle orecchie. Le guance umide dal troppo piangere. Dormiva, il suo lento respiro a spezzare il silenzio del soggiorno. Mi avvicinavo senza fare rumore e la prendevo in braccio. Un piccolo sussulto, il desiderio di lottare come aveva sempre fatto con tutto e tutti nella sua vita da rivoluzionaria che però lasciava adesso spazio ad un languido sospiro. Le sfilavo le cuffie dalle orecchie e le indossavo.

Ascoltavo la musica scorrere
I just want to be a woman... so don't you stop being a man...